Le opere di Julie Polidoro rappresentano paesaggi: vasti frammenti di territorio dipinti a volo d’uccello e ampi cieli di una luminosità cristallina.
Dipinti con pochi colori su tele di lino di grandi dimensioni, e poi appesi come stendardi, questi paesaggi fluttuano al minimo alito d’aria e hanno la spaziosità del cielo, l’essenzialità di un pensiero incarnato, la vaghezza di un volo mentale; hanno l’intensità delle sensazioni e la leggerezza delle nuvole in viaggio.
I colori dominanti sono blu e verdi vibranti, realizzati con pigmenti puri. Le campiture sono stese direttamente su una tela non trattata, e ancora segnata della piegatura. E la tela stessa emerge sia tutt’intorno ai dipinti, lungo il bordo delle immagini, divenendo cornice, sia in mezzo ai quadri, rappresentando essa stessa un colore, laddove altrimenti l’artista avrebbe dovuto far ricorso al bianco. Un effetto che fa pensare all’acquarello.
Talvolta il processo pittorico si svolge al buio, o su tele appese solo per il lembo superiore: come a voler includere il caso nel processo creativo, liberandosi dai limiti autoimposti dalla competenza tecnica e dall’autocontrollo: un modo per valorizzare gli impulsi e le contingenze, per aderire agli scenari che man mano si vanno delineando con una duttilità che non è effetto di estemporanea improvvisazione, ma frutto di scelta.
In molti casi i cieli e i paesaggi dipinti da Polidoro sono solcati da una griglia: acquistano cosi la parvenza di mappe. Non si tratta, però di esprimere una razionalità misuratrice; più che ordinare o suddividere, queste griglie corrispondono al desiderio di riconoscere il territorio, di trovarvi corrispondenze.
Le opere di Julie Polidoro comprendono anche tracce di figure realizzate veloce mente, a matita, prima di passare al pigmento; o riportano parole e brevi frasi, elocuzioni sintetiche, prive di carattere aneddotico; frasi che non ci forniscono coordinate cronologiche e geografiche precise, ma che costituiscono comunque riferimenti temporali – tra cinque minuti; dopodomani – o giochi linguistici che richiamano idee, frangenti, situazioni quotidiane e personali: elementi che adombrano relazioni, che alludono a cose che esistono nella realtà, come i sentimenti, come le nuvole; ma che, come le nuvole, restano imprendibili e inarrestabili; e che consentono di riferire le opere all’attualità, sebbene si tratti dell’attualità dilatata di un presente atemporale. Essendo accennati appena, questi elementi non sollevano pretese di possesso, ma rappresentano suggestioni e aperture a innumerevoli possibilità di collegamento, oltre lo sguardo. Questa libertà, questo inatteso è, per l’artista, ciò che più conta. La presenza di un vuoto, la dimensione del non del tutto compiuto, l’incompletezza, appunto, ricercata ed evidente tanto in questi elementi appena accennati quanto nel lasciar trapelare zone di tela non dipinta, conferiscono alle opere di Polidoro un’atmosfera enigmatica, ma anche una consapevole e voluta polisemanticità. Consentono di assumere il caso come agente fondamentale, ma anche di lasciare ampio spazio all’interpretazione e alla ricerca di possibilità, favorendo una compartecipazione e il delinearsi di un ambito in cui i confini si fanno fluidi: così in alcune delle sue opere troviamo delle figure umane adagiate a terra come a volersi immergere nella vitalità della natura per captarne la forza essenziale: un’integrazione corpo-paesaggio, specifico-universale, che dice la capacità di abbandonarsi alla ciclicità naturale, a una relazione organica con il mondo che consenta di recuperare se stessi.
“Il mio respiro, il tuo respiro” scrive Polidoro su una delle sue tele. È possibile respirare all’unisono? Dove finisce il mio respiro, dove inizia il tuo? Qual è il momento in cui si fondono, nell’etere che sta tutt’intorno a noi? Nel suo mondo, come nella realtà, non esistono confini precisi, ma porosità, apertura, attenzione e cura per il mutamento; e una profonda consapevolezza del fatto che siamo tutti esposti alle circostanze e alla metamorfosi.
Il lavoro di Julie Polidoro è allusivo e digressivo, ma non elusivo. Il suo linguaggio essenziale ha il senso di una meditazione di fronte al paesaggio e alla natura. Il suo modus operandi, che evita volutamente qualsiasi effetto speciale, corrisponde al suo modo di guardare il mondo. Esprime, senza legnosità dimostrative, la ricerca di un’alternativa al consumismo, al gesticolare, alla fretta permanente, al proliferare di segni che, correlato com’è all’inquinamento della visione e del pensiero, satura la mente e genera disattenzione.
Le sue immagini sono liriche, sensibili e visionarie, fortemente emotive, ma prive di sentimentalismo, i suoi paesaggi vibranti e i mobili cieli solcati da nuvole invitano a un nuovo modo di pensare il mondo e dicono che ogni cosa è dotata di una propria forza trasformativa interna; che al di là delle contingenze tutto è soggetto a revisione e nulla è acquisito una volta per tutte. Rappresentano quindi l’impermanenza, la transitorietà, la discontinuità della percezione, ma anche la persistenza, e un’organica unità di ogni cosa. Un’organicità che si dispiega nel tempo: “L’infinito non è uno stato stabile, ma la crescita stessa”, diceva Aristotele.
Alla società attuale, dall’usa e getta, dal tutto e subito, Julie Polidoro propone una pausa di riflessione, e ribatte con la continua ricerca di un equilibrio in una realtà fragile e vulnerabile.
Nei suoi paesaggi che respirano, nella vibrazione stranamente pura del colore ci sentiamo trascinati. L’elemento naturale dei suoi cieli, così come il paesaggio artificiale, coltivato, che conosciamo, non li sentiamo solo oltre e al di là, ma intorno a noi; ci riguardano, ci avvolgono e ci coinvolgono. Così, nel contatto che induce tra il paesaggio e chi lo osserva, tra il mondo e l’uomo, Julie Polidoro dà forma sensibile alla relatività del tempo e della realtà e al legame, sempre particolare e personale, che ognuno di noi ha con la natura, alle innumerevoli e sempre soggettive possibilità di trovare un equilibrio e una libertà in una realtà fragile.
In queste opere si leggono ampiezza e intimità: e ci si sente come colui che, con parole di Maria Zambrano, torna alla “primaria condizione di abitante dell’universo in atto di offrirci la sua presenza […]”.
Vi si avvertono anche una poetica interrogazione sul senso, e una solitudine, un’inquietudine: l’inquietudine di chi incessantemente cerca di decifrare un sentire originale, di chi sta nella ricerca e nella domanda, piuttosto che correre veloce verso la finalità di una risposta.