ARCIPELAGOLICA
È con questa parola, arcipelagolica, che l’opera pittorica e grafica di Julie Polidoro deve essere intesa. Questo neologismo è preso in prestito dal pensiero di Edouard Glissant che, oltre al note vole impegno politico, fa emergere il nuovo significato di un divenire universale. Questo divenire universale verrà nominato da alcuni da un punto di vista geopolitico e multipolare, altri useranno dei termini “frantumato” o “scoppiato”. Sicuramente le definizioni possibili, perché di questo si tratta, sono ricche e plurime e inseriscono chiaramente l’uomo in un rapporto anti-egemonico col mondo, il suo mondo. Nell’espandersi di questo pensiero decentrato e con lo scopo di opporsi all’unicità di una legge e di un sistema, la polisemia del mondo, l’opera di Julie Polidoro agisce come un fruscio che agita e bilancia le nostre certezze e mette fuori asse i punti d’ancoraggio spaziali e temporali ai quali ci crediamo fermamente assicurati.
Con ciò, l’approccio pittorico dell’artista, rigenerato in un movimento perpetuo e infinito, riscrive nuove cartografie. Nelle tele più recenti, libere, il quadro della rappresentazione è offuscato e distanziato. Le opere sono come vedute aeree catturate dal cielo in un gioco indistinto di campi terrestri, marittimi, eterei. Perché se l’occhio discerne qualche linea, qualche contorno del territorio che la consuetudine ci fa riconoscere con lo sguardo o la parola, sembra che qui sia difficile attribuirgli un’identità. Lontani dallo schema ortometrico solitamente stabilito della cartografia, questi paesaggi appartengono al regno dell’invisibilità e dell’indicibile. I rari riferimenti ai quali lo sguardo e l’intendimento possono ancorarsi appaiano come entità sparse ed effimere: nuvole, isole forse, qualche parola pronunciata, briciole emergenti dal caos. E lì, corpi sdraiati, galleggianti, come irrigiditi in un attimo di serenità identico a quello di una caduta o di un riposo terreno.
La pittura di Julie Polidoro è un’opera sintomatica, un’immagine dell’istantaneità. Ogni tela ha da questo punto di vista la fisicità di un fotogramma sul quale sono venuti ad imprimersi fugacemente segni del tempo e dello spazio contemporaneamente provvisori e lacunari. Ed è proprio da quest’apertua spalancata, l’assenza di materia pittorica, che l’artista si avvicina al suo lavoro. Le nuvole, gli isolotti, queste entità arcipelagoliche che abbiamo detto, nascono dai vuoti e dai bianchi che ritmano il quadro e impediscono una circolazione senza limiti dello sguardo creando discontinuità di lettura. Rivelando le lacune ancora da sfruttare, l’artista propone di ricompone un mondo a misura d’uomo, a misura di memoria, insieme incompleto e infinito.
L’uomo non può più pensare il tempo, lo spazio e il mondo, come totalità. Deve assolutamente staccarsi e allontanarsi dall’unicità di una definizione antropocentrica dell’universo perché se i corpi sono realmente presenti e attivi lo sono in quanto ricettacoli di risorse comuni, pronti ad ascoltare il ritmo della natura, dei suoi elementi, temporanei, discontinui, profondamente polisemici.